Segnalazione al Festival “Narni Opera Prima”
testo e regia
ENZO G. CECCHI
Con
Marco Zappalaglio, Enzo G. Cecchi, Luca Boschi
Produzione
Piccolo Parallelo, TNE Moline, Bologna
Prima rappresentazione : Bologna, Teatro delle Moline , 24 novembre 1987
DALLA SCHEDA DELLO SPETTACOLO
«Martèn è il soprannome del capostipite di una famiglia di contadini. L'uomo delle onde è la traduzione di un termine giapponese (rònin, uomo trascinato dalle onde) che indica il samurai senza padrone. Dopo alcuni anni di separazione tre fratelli si ritrovano per una notte nella casa natale dove il più anziano che li ha convocati continua ostinatamente ad abitare. È la notte che precede il matrimonio del più giovane, Andrea di 20 anni che vuole ritornare al paese e viverci con la futura moglie. Alessandro detto Ciandri ha invece trenta anni. Era uscito di casa dopo la morte della madre e di lui non si era saputo più nulla. Francesco il più anziano detto Cesco, ha 36 anni, sente il ruolo di "pater familae", ha comperato la vecchia casa dove erano nati ed è contadino. Aspetta i fratelli e vuole festeggiare. Questi tre fratelli sono tre "rònin" tre persone isolate, indurite dalla vita e corazzate di orgoglio che ne gli affetti ne scontri riescono a scalfire».
RILIEVI
"Martèn", strettamente collegato con "La mia terra..." è scaturito dalla solitudine e dall'orgoglio di una nostra sconfitta (lo scioglimento della compagnia di "Jeannot"). Volevamo parlare del presente, un presente di contraddizioni uscito non indenne da una cultura prevalentemente contadina. "Martèn" considerato da molti uno spettacolo "mito" e la nostra prova meglio riuscita, per noi ha costituito una condanna e notevoli problemi. Ci collocava (venivamo collocati) in un recinto vagamente naif e in più era 'anticipatore di un genere che fu grossolanamente definito "della memoria" poi ampiamente sfruttato datanti. Contrariamente alla logica che vuole che uno spettacolo di successo non si abbandoni, abbiamo abbandonato "Martèn" dopo un anno e mezzo (circa sessanta repliche) quasi in coincidenza con la nostra fuga da Bologna per Pumenengo. In realtà "Martèn" era una operazione più intellettuale di quello che anche noi volevamo far credere e la pulizia dei gesti e della scena provenivano da un lungo precesso di eliminazione di tutto ciò che ritenevamo superfluo. Pure lungo e faticoso è stato il lavoro degli attori che dovevano recuperare credibilità e semplicità rinunciando a qualsiasi orpello o trucchetto cui aggrapparsi e a cui si chiedeva - a fase di lavorazione ormai ultimata - di entrare in uno stato di "quasi trance". Abbiamo ripreso "Martèn" nel '91 per due repliche, in un paese del Trentino (Faver) con problemi e contraddizioni molto simili a quelle di "Martèn" e come attori persone del paese che non avevano mai recitato.
NOTE DI REGIA
Dalla scheda dello spettacolo: «... così anche la lingua dialettale che a tratti compare nello spettacolo si offre naturalmente per il suo respiro e la sua cadenza a coniugare la gioia e la solitudine. La rassegnazione e l'immoralità del dolore... Non amo l'attore portatore di fredda tecnica, amo la tecnica violata/violentata... filtrata dal cuore e dalle viscere...».
La scrittura dello spettacolo che non rimanda ne alle tre sorelle, ne all'albero degli zoccoli nasce di getto. Si è voluto evitare una scrittura letteraria per rapportarsi al monologare dei racconti che ritornano su di sé degli anziani. Da qui nasce l'idea, quasi biblica, della genealogia iniziale. Da questi racconti e dalle smemoratezze nasce l'idea della perdita di memoria o di attenzione ("chi mi chiama?"). Da qui anche il lavoro degli attori che dovevano dimenticare le azioni appena compiute e le parole appena dette o perdere gli oggetti che non servivano più. L'inizio del cielo stellato non è una citazione, ma è senz'altro stato influenzato dalla "Notte di S. Lorenzo". Inizialmente lo spettacolo doveva svolgersi attorno ad un tavolo, in una cucina, come una immagine caravaggesca, però l'esigenza di dare un colore e un profumo allo spettacolo e l'ossessione del ricordo di un uomo nudo che si tuffava in una montagna di granoturco, ci ha fatto optare per i cinque quintali di granoturco che ricoprivano interamente la scena (prima di ogni replica questo granoturco veniva pettinato quasi fosse un giardino orientale). Dobbiamo ringraziare Francois Kahan il cui contributo ad una settimana dalla prima ci aveva aiutati a focalizzare meglio alcuni segni e a farci capire come ogni spettacolo debba avere un proprio cromatismo. Ritornando ancora al testo; avevamo inserito alcune frasi nei dialetti originali dei tre attori sia per la sonorità sia per l'impossibilità di rendere questi stessi termini in italiano. Poi abbiamo usato questi inserimenti per i momenti più intimi ed interni e per rendere più concreta l'incomunicabilità dei tre fratelli. I movimenti, a differenza della spigolosità di "La mia terra..." e della verticalità di "Jeannot", erano a tutto tondo, tutto era circolare, quasi un fiume paludoso che torna su di sé. Gli spostamenti degli attori erano studiati come se loro fossero fermi e fosse quasi un occhio esterno a girare attorno a loro e li osservasse.
NOTA CRITICA
«...un lavoro vivido intenso, uno dei migliori in assoluto realizzati dai gruppi teatrali delle ultime generazioni».
PAESE SERA, M. Palladini
«... uno spettacolo avvincente per la sua carica di verità e per la rara capacità di attingere a radici popolari».
LA REPUBBLICA, F. Quadri
«Un'opera che aggiunge ad una visceralità poetica l'armonia della forma. Un'opera/spettacolo da ritenersi "compiuta" nella sua realizzazione rigorosa ed efficace». IL POPOLO, I. Mezza
«... conviene segnalare in rosso questi due giovani attori, come una alternativa concreta al dilagante Teatro del consenso».
IL MANIFESTO, G. Manzella
«... C'è una qualità sotterranea che corre dietro ogni azione, c'è la voglia di guardare il reale e di trascriverlo senza misticismi».
L'UNITÀ, A. Marrone
«... Un crescendo emozionale lega scena dopo scena, ed anche il passato, presente futuro dei tre fratelli, caratterizzati da nodosità comportamentali da cui scaturiscono le tensioni che portano ad una mirabile "scena madre" finale».
SIPARIO, S. Franci
«Martèn sembra uno spettacolo freddo e tormentato, monotono e inquieto. Ma questi contrasti non sono affatto negativi: anzi vivono nello spettacolo una certa concretezza e sincerità che forse è il dato più interessante...».
LA REPUBBLICA. Anna Bandettini
«È uno spettacolo di scabra suggestione, da "nuovo" teatro povero in cui si avverte ancora un certo scompenso tra parola ed azione, tra racconto gestualità e corporeità».
LA STAMPA, Guido Davico Bonino
«Martèn... si propone come "teatralità originaria". È una forma di spettacolo drammatico che intende comunicare l'esperienza metafisica nascosta tra le pieghe del pensiero umano e che cerca di completare la parziale immagine della realtà, integrandola con una visione più completa del mondo e dei suoi misteri. Il gruppo di Bologna tenta di raggiungere il traguardo con grande semplicità di mezzi».
IL CORRIERE DELLA SERA, Emilia Costantini